Alba: «Dopo il tribunale si perde il carcere», dopo la decisione di trasformare la struttura in una Casa Lavoro

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ALBA – Il carcere di Alba “Giuseppe Montalto”, in pratica, non sta facendo un passo avanti. Ad oltre 5 anni dalla chiusura per Legionellosi risulta agibile sono l’ex reparto collaboratori di giustizia che ospita circa 40 detenuti. Ma di lavori radicali che consentano una sostanziale “restitutio ad integrum” della struttura non si vede traccia. Si parla, invece, della prospettiva di trasformare il Montalto in una “Casa di lavoro”, ma – in proposito – il penalista albese Roberto Ponzio ha preso posizione sottolineando come questa eventualità non sia esattamente un’evoluzione positiva. «Mi pare che intorno a questa ipotesi non tutti abbiano le idee chiare. Il “Giuseppe Montalto” è un carcere.

Una Casa di lavoro non lo è: passare da una cosa all’altra porta a risultati radicalmente diversi e non “automaticamente” positivi». Per quale motivo? «Perché un carcere è un istituzione che ospita persone che devono espiare con la pena detentiva i reati commessi. Il fine della loro detenzione è, o meglio sarebbe, quello di restituire queste persone alla vita civile avendo utilizzato il periodo di detenzione per elaborare gli errori commessi e dar prova di riscatto sociale. La Casa di lavoro, invece, ospita degli “internati” che già avendo scontato la pena sono considerati ancora socialmente pericolosi oppure persone ammalate, tossico dipendenti, delinquenti abituali, soggetti instabili o imprevedibili. In questo senso si parla di “ergastolo bianco” dove si trovano persone che per vari motivi non conoscono il momento del loro fine pena in quanto ritenuti socialmente pericolosi.

Tesi sostenuta anche da Bruno Forte, teologo e arcivescovo metropolita di Chieti». E questa condizione cosa configura, nello specifico? «Le conseguenze sono di più ordini. Come premessa occorre dire che siamo di fronte a un istituto figlio e superstite del Codice Rocco del 1930. Una specie di “lasciate ogni speranza” che poco o nulla ha a che fare con il valore educativo del lavoro come percorso di redenzione e riscatto. Quanto piuttosto ricorda una sorta di fine pena infinito e disperato dove si colpisce la persona molto più che il reato. Questa è mentalità ormai arcaica e al margine in quasi tutti i Paesi più moderni. Nello specifico, forse non si pensa al fatto che, se così fosse, la città perderebbe un altro pezzo per quanto riguarda il diritto alla giustizia. Dopo il Tribunale diremmo addio anche al carcere. E, in questo modo, chiuderemmo ogni ipotesi di (contro)revisione della riforma di Giustizia che ha penalizzato nel modo peggiore e indecente la nostra città con la perdita del Tribunale e della Procura».

Sta pensando al presidente Andreotti? «Mi sa che ci sta pensando anche lei. Se è vero che a pensare male si fa peccato è però vero che spesso si ha ragione. Perché dopo tanti anni qui siamo sempre allo stesso punto? Perché si è tanto parlato e nulla è stato fatto in concreto per rimettere il carcere in condizioni di lavorare? Perché non peccare di presunzione pensando che a qualcuno le cose vadano bene così?».

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