Non ci sono interpreti: rischia di finire in nulla il processo per i bengalesi truffati a Ceresole d’Alba

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Raggirò o fu raggirato? Rischia di non dare risposta il processo per truffa aggravata a Daniele Olivero, 43 anni, di Ceresole d’Alba, già titolare della Sio Automotive. Un’azienda metalmeccanica che nel 2013 avrebbe dovuto passare a una co­ope­ra­tiva, la Rubina, costituita da 130 immigrati dal Bangladesh. Essi dicono di aver versato 2mila euro a testa per poi restare senza lavoro nell’arco di pochi mesi. Olivero sostiene che era stato raggiunto un accordo sulla base di 1 milione da pagare a rate, ma di non aver visto più di 40mila euro, subendo quindi il fallimento con relativi danni economici e d’immagine. Il sindacato Fiom (parte civile con 2 operai) ribatte che si starebbe trattato di un tentativo di sfruttamento. «Caporalato industriale» lo ha definito in aula la settimana scorsa Federico Michele Bellono, all’epoca segretario provinciale torinese della Fiom. Il problema è che il procedimento va avanti al rallentatore e ormai incombe la prescrizione: scatterà a novembre 2020.

Non si va avanti per la penuria d’interpreti necessari a rendere fruibile al magistrato la testimonianza delle parti civili, che parlano solo la lingua madre. Anche la settimana scorsa Mohi Uddi e Shilfe Uddin non hanno potuto esprimersi. Un nuovo tentativo è stato fissato dal giudice per il 26 marzo. Bellono ha raccontato le condizioni di lavoro di quegli immigrati che sognavano di avercela fatta, di essersi comprati con i risparmi di una vita un lavoro e quindi un futuro in Italia. Dormivano stipati in camerate prive di servizi, in fabbrica a Osasio e Carmagnola nel torinese oltre che a Ceresole nessuna formazione, zero sicurezza. A denunciare Olivero con un esposto furono Masum Hussein e Jamal Miah, i due amministratori della cooperativa.

A difendere l’imprenditore è l’avvocato albese Roberto Ponzio. Ha dichiarato che a prendere i denari versati dai bengalesi fu un’altra persona, un intermediario che aveva prospettato questa cessione dell’azienda all’Olivero a sua volta tratto in inganno perché non percepì mai il prezzo pattuito. I bengalesi avrebbero versato in tutto 260mila euro, soldi che non sono più stati recuperati.

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