Il ricordo di Filippo Gallino, decano dei vigneron di Canale e del Roero

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La scena è quella, vissuta tante volte nelle vicende di paese, di una sala più o meno gremita, per un incontro pubblico: quella dell’ormai ex Sala Odeon, già leggendario cinema, poi luogo d’incontro, ed infine ancora “altro”. Come, del resto, accade per ogni cosa che appartiene in questo mondo. Nel semi-silenzio che precede quella riunione d’inizio Anni Duemila, si sente il trillo di un telefono cellulare: e poi si alza lui, con la sua voce bassa, elegante, e sempre discreta, per trovare un posto tranquillo in cui rispondere a quella chiamata. Tutt’intorno, un brusìo: che non fa che confermare una cosa, ossia che anche il personaggio centrale di questa storia possiede un telefonino.

E c’è chi sorride, di fronte a ciò che pare testimoniare quanto il tempo passi: quanto le abitudini della modernità possano cambiare i dettagli di una visione superficiale, affrettata di ogni comunità, di ogni vissuto quotidiano. Ma c’è anche chi, in quel mormorare, dice una verità assoluta: «Guarda che Filippo era più moderno e più “avanti” di tutti, quando tu non eri ancora al mondo». Voci, e sensazioni, che emergono ora che Filippo Gallino ha lasciato questa terra: la “sua” terra, intesa tra il piccolo, enorme pianeta di Canale e del Roero, e quel mondo che da anni aveva preso ad avere attenzione per ciò che qui cresce, tra lavoro ed impegno. «Si è speso e si è dato da fare sino all’ultimo istante, senza mai mollare», mi dice il vigneron e amico Angelo Negro, mentre camminiamo verso la chiesa parrocchiale colma di quelle persone a cui Filippo ha voluto bene, e che gli hanno voluto bene. E tanti, stringendosi intorno al figlio Gianni, alle figlie Enrica e Laura, alla sua bella e grande famiglia, lo sottolineano come in un “grazie” sincero, da ogni età, da ogni voce. Personaggio speciale, Filippo: che, davvero, ha attraversato le epoche di un Roero vitivinicolo, ma anche sociale, umano. La sua presenza era garanzia che si stava facendo qualcosa di buono, di onesto, e ricco di passione: da chi lo ricorda nel leggendario Club 3P (“Provare, Produrre, Progredire”: tre iniziali, tre costanti del suo modo di affrontare il mestiere di vigna e cantina, e di uomo), passando per la sua lunghissima esperienza nelle file della Coldiretti («Non chiedo che mi votiate: chiedo che partecipiate alla vostra terra», ebbe a dire, con grande onestà intellettuale, in una delle tante volte in cui venne confermato come rappresentante di zona, sempre con percentuali plebiscitarie), sino al Consorzio Strade che vide nascere da presidente, ai tanti gesti generosi nella vita di tutti giorni, e in ambito parrocchiale. E penso a quando, dopo ogni processione del Sacro Cuore, ci ritrovavamo in Canonica per un bicchiere: desiderosi, ogni volta, di ascoltare un suo aneddoto, per scoprire qualcosa di più sulla capitale del pesco. Filippo, pronto sempre a stare a contatto con persone di ogni età: «E non si smette mai di imparare», disse ad una festa del Ringraziamento, quando lo scoprimmo a parlare di e-mail, di siti internet, di tecnologie.

Pronto, sì, anche ad accettare la sfida dei cambiamenti di un’a­gricoltura e di una società sempre più di corsa, veloce, quasi inarrestabile: con quel ruolo di “decano del Roero” conquistato sul campo, quando Carlin Petrini lo indicò pubblicamente come esempio di quanto siano importanti esperienza ed umanità. E non si sbagliava, il fondatore di Slow Food. «Non so se merito tutte queste attenzioni: ma, ad ogni modo, cercherò di esserne degno», disse poi Filippo dopo l’uscita di un libro del popolare giornalista Barba Bertu, con un capitolo tutto dedicato a lui. Ed era proprio questa la sua cifra: fatta di umiltà, concretezza, riconoscenza e proverbiale forza DI volontà. Doti apparentemente semplici, ma totalmente rare a trovarsi tutte assieme in una sola persona: ed è proprio ciò che lo rendeva unico. Perché, parafrasando un verso di Lucio Dalla, “l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”.

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