Da Alba e dalle Langhe quando i piemontesi emigravano in Argentina in cerca di fortuna

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Nella Pampa sudamericana li chiamano Piemontesas argentinas. E sono tanti. Tantissimi. Han­no addirittura una associazione che li rappresenta e mantiene saldi i contatti con i luoghi d’origine. Sono i discendenti dei piemontesi emigrati in Argentina tra l’inizio del ‘900 e i primi anni del dopo guerra. Una comunità rimasta saldamente legata alle sue origini, composta in massima parte da immigrati proveniente proprio dal cuneese. «Da Alba e dalle Langhe, in particolare, furono moltissimi i contadini partiti a cercare fortuna in America» puntualizza Donato Bosca, storico e scrittore, che insieme al fotografo Bruno Murialdo ha dedicato un libro al “sogno argentino” del Novecento.

Nuovo mondo. Piero e Gina Murialdo in Cile.

A testimonianza di un rapporto con la terra d’origine che non si è mai interrotto del tutto, la scorsa settimana è arrivato in visita in Piemonte Edelvio Sandrone, presidente della Federacion Asociaciones Piemontesas Argentinas. Salutato dall’assessore regionale all’Emigrazione, Roberto Rosso, il rappresentante della comunità piemontese argentina ha lanciato un appello a tutti i sindaci, affinché promuovano iniziative per rinsaldare la reciproca conoscenza, rafforzando i rapporti commerciali e turistici. «Perché tra queste colline – ha spiegato lo stesso Sandrone – si conservano le nostre radici». Ma quanti furono gli uomini e le donne che nel corso del ‘900 lasciarono le colline di Langa per andare – come si diceva all’epoca – “a fare l’America”? «Difficile dirlo – spiega Donato Bosca – molte migliaia sicuramente.

A sinistra l’Amerigo Vespucci, a bordo della quale tornarono in Italia dopo 15 anni in Sud America

Le destinazioni, per chi partiva dall’albese, erano soprattutto due: le province di Santa Fé e Cordova. Dai primi anni del ‘900, in pochi decenni, in quelle terre i piemontesi diventarono così numerosi da creare addirittura una nuova lingua. Era chiamata “lonfardo”, e altro non era che un miscuglio tra il nostro dialetto e lo spagnolo». Spulciando oggi gli archivi storici dell’epoca, scopriamo i piemontesi erano addirittura al terzo posto nella graduatoria che le Prefetture stilavano conteggiando le famiglie che si imbarcavano nel porto di Genova verso il Sud America. Ma gli italiani partivano anche da molte altre regioni, soprattutto del sud Italia. Non a caso, oggi il 47% della popolazione argentina è di origine italiana. «Alla fine dell’800, e ancora nei primi anni del ‘900 – prosegue Bosca – il numero di immigrati che tentavano la sorte in Argentina era più o meno corrispondente a quelli che sceglievano il Nord America.

Un gruppo di migranti, prima dell’imbarco verso l’Argentina

Dal 1924, quando il trasferimento negli Stati Uniti divenne più difficoltoso, i flussi migratori si orientarono verso il Sud America. Verso l’Argentina, soprattutto, ma anche il Cile, l’Uruguay, il Venezuela. Il fenomeno si interruppe brevemente soltanto durante gli anni del fascismo. Nel Ventennio, l’obbligo morale per gli uomini era infatti quello di lavorare e crescere figli per il bene della patria e lasciare l’Italia era considerato una sorta di “disonore”». Prosegue Bosca: «le migrazioni ripresero consistenza negli anni successivi alla fine della guerra. In Argentina andavano i fascisti che temevano ritorsioni, ma anche i partigiani, i combattenti che volevano rifarsi una vita, e tantissime famiglie desiderose soltanto di sfuggire alla miseria devastante di quegli anni terribili». Per chi decideva di andare a tentare la sorte oltreoceano, il primo passo era quello di acquistare il biglietto della nave.

Si partiva dal porto di Genova e il viaggio verso il “nuovo mondo” durava quattro settimane, durante le quali le lunghe giornate monotone si alternavano al terrore delle tempeste oceaniche. Tante erano le persone che partivano dalle nostre colline che esistevano addirittura due agenzie a farsi concorrenza, una a Dogliani e l’altra a Santo Stefano Belbo. A inizio ‘900, per chi metteva piede in Argentina, la provenienza da Alba era, per certi versi, una sorta di “garanzia”. Perché i langaroli erano considerati persone disposte a lavorare con fatica senza mai lamentarsi, abili ad allevare bestiame, così come a coltivare la terra. «Quando dovevano dichiarare il proprio paese d’origine – sottolinea Bosca – gli emigranti provenienti dal nostro territorio non dicevano il nome della loro regione, o del proprio paese di nascita, come ad esempio “Mango” o “Cortemilia”, ma sempre “Alba”.

E questo apriva loro molte porte. Per gli argentini, la nostra era la “città della polenta” e noi i “mangiatori di polenta”. Termini che non nascondevano, tuttavia, alcuna forma dispregiativa». Perché in Argentina, i “mangiatori di polenta” hanno saputo guadagnarsi il rispetto con la fatica, i sacrifici, il duro lavoro. Spesso facendo fortuna, avviando imprese, aziende, industrie. Senza mai dimenticare la loro terra e le colline da cui erano partiti…

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